Prurigine all’azione: talvolta, meglio grattare

apparso su Asinus Novus

Succede che esigenze giuste siano espresse dalle persone sbagliate, verità evidenti vengano pregiudicate da argomenti o esempi equivoci, buoni provvedimenti vadano a beneficio di immeritevoli. Di tali incongruenze e beffe è piena la storia del mondo e la vita di tutti i giorni.
(P. Bellocchio)

Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno giustiziati.
(P. Bellocchio)


Esco amareggiata dalla lettura del resoconto dell’amica Rita sul presidio contro il circo tenutosi di recente a Marino: amareggiata ma non stupita, piuttosto confermata nella mia generale amarezza. Devo dire che il circo con animali è uno degli spettacoli che più mi rattristano, perché ci vedo una quota di insensatezza superflua, e allo stesso tempo ho ben presente che non sarebbe un gran sacrificio per gli Italiani, rinunciarci: a molti il circo nemmeno interessa e, plausibilmente, chi prova una genuina curiosità nei confronti degli animali è perfettamente in grado di capire – e senza neppure interrogare i metodi di addestramento – che costringere un animale esotico in gabbia è un reato che colpisce, prima ancora che le specie in questione, lo stesso essere umano che dovrebbe trarne una qualche forma di godimento, che si esercita a sacrificare la bellezza al possesso, e si disabitua da ultimo a riconoscerla. Nonostante questa verità che mi pare clamorosamente evidente, Rita ci riferisce che genitori e vario parentado, accorsi sul posto con seguito di figli, figlioletti, amichetti e nipotini, ammettono candidamente la violenza del circo ma, nella stragrande maggioranza dei casi, se ne infischiano. Ora, poiché conosco Rita e altri infaticabili che hanno partecipato alla contestazione, mi sento di escludere i toni con i quali gli attivisti si sono rivolti al pubblico assomigliassero alla versione caricaturale e diffamatoria che dell’animalismo è stata data da Giovanardi (…) nel recente siparietto televisivo su Unomattina: ciònonostante, come ognuno può leggere, le reazioni degli astanti sono state appunto, soprattutto, noncuranza e distacco, quando non fastidio, aperta ostilità e sarcasmo. Niente di nuovo sotto il sole: ci siamo abbondantemente preparati. Tuttavia, da un commento al vetriolo lasciato da un utente anonimo su un blog al disprezzo dichiarato in faccia da uno sconosciuto ne passa, e una persona mediamente sensibile può giustamente venirne colpita. Il “monito” che Rita desume da tutta la faccenda è quello che chiamerei un invito all’azione:

È che a volte, diffondendo le idee antispeciste sempre tramite i blog o altri social network, comunicando e confrontandosi sempre tramite internet, si rischia di perdere di vista la realtà del mondo fuori, cioè una realtà fatta perlopiù di persone ignare – o, nella migliore delle ipotesi, indifferenti – dello sfruttamento degli animali. Scendere in strada, fermare la gente, fargli domande, parlarci invece dà il metro di quale immenso lavoro ci sia ancora da fare per diffondere l’antispecismo e per fare in modo che sia sempre meno quell’idea astrusa che ai più deve sembrare al momento.
Con questo non intendo affatto sminuire il lavoro di chi scrive e basta, ma solo porre l’accento sulla necessità che abbiamo, noi antispecisti, di unirci e di cooperare anche con l’attivismo vero e proprio, qualsiasi sia la maniera di intenderlo (presidi, manifestazioni, volantinaggio, liberazioni, volontariato per aiutare animali in difficoltà).

Non ero sul luogo, e spero che Rita mi perdonerà se mi permetto di contraddire il suo giudizio, ma non sarà proprio il contrario, non sarà che a furia di intervenire, agire, picchettare (spesso, purtroppo, i singoli esercienti), si è persa di vista la desolante “realtà del mondo fuori”? Non sarà che le persone, niente affatto ignare ma rese indifferenti e immunizzate al dolore altrui da una sovraesposizione di decenni alle stesse immagini iperrealistiche e agli stessi ritriti argomenti, non ci possono soffrire? Non sarà che le nostre iniziative che si susseguono pressoché identiche senza ottenere grandi risultati assomigliano spaventosamente ai moti convulsi e irrelati degli stessi animali che vorremmo tutelare? La mia impressione è che la “verità effettuale della cosa” non sfugga tanto a “chi scrive e basta” – tralasciando il fatto che sono convinta questa separazione degli ambiti di azione sia falsa e frutto della suddivisione dell’uomo in funzioni, determinata storicamente: gli atti linguistici sono, a tutti gli effetti, atti, e inevitabilmente generano conseguenze -, quanto a chi, pur di non rimanersene “con le mani in mano”, si dedica con ammirevole quanto inutile zelo ad un interventismo standardizzato e miope, consolatorio quanto gran parte di quell’attività di analisi e critica che ultimamente va tanto di moda denigrare. Non fraintendetemi: appoggio totalmente il presidio di Marino. Solo, non mi sorprendo gli animalisti siano stati trattati come testimoni di Geova, né credo la spiacevole circostanza sia da imputare alla scarsa informazione dell’uomo qualunque in materia di sfruttamento animale.

L’impressione che molti ricevono del movimento antispecista, sovente associato a qualche stramba chiesupola, è, per quanto errata, comprensibile. Ci si trova davanti ad un gruppo omologato e compatto, che tende a identificarsi con uno stile di vita – “il pacchetto vegan” – , che si risolve in una ferrea precettistica alimentare: così come accade per ogni dottrina. Go vegan!, ovvero: diventa come noi. I limiti (e i danni) del proselitismo fine a se stesso, che attivisti come Reggio e Maurizi – ma non sono i soli: pure io, timidamente, ci ho provato – si ostinano instancabilmente a mettere in luce, vengono perlopiù ignorati da gran parte degli attivisti, oppure – peggio ancora – accettati come veri senza che ciò produca alcun sostanziale ripensamento della prassi. Il massimo che si può sperare di ottenere, è un “vegano politicizzato”, ovvero un individuo che comprende il carattere sistemico dello sfruttamento ma, per una strana dissonanza, continua imperterrito a rivolgersi al singolo consumatore, suggerendogli (talvolta intimandogli) cosa mettere nel carrello. Per mancanza di un’alternativa immediatamente praticabile, si va avanti tale e quale a prima, sperando la mano di un deus ex-machina giunga un giorno benigna a risolvere la spinosa situazione. Persino Tom Regan ha sottolineato quanto sia illusorio credere che isolate modificazioni del consumo individuale possano, in un sistema come il nostro, condurre all’abolizione dello sfruttamento, e certo questo non può sfuggire all’occhio implacabile dell’osservatore disincantato: che vede nel vegano, probabilmente, un integralista dell’inutile, maniacalmente dedito a una serie di privazioni che non hanno alcuna presa sulla realtà. Ciò dovebbe portare, credo, a una consapevolezza tanto rognosa quanto necessaria, che stenta però a prodursi: insinuare che diventare vegan non sia “una scelta, ma un dovere”, è un’autentica sciocchezza, e, ciò che è più grave, una sciocchezza del tutto controproducente, perché ci priva di ogni possibile interlocutore.

Il caso Yourofsky mostra, tuttavia, che parecchi animalisti non si dibattono affatto in questa dissonanza, essendosi arrestati molto prima: nonostante sui limiti della diffusione della “scelta vegan” si sia espresso pressoché chiunque (lo stesso, molto amato, Steve Best), si è eletto a vate un attivista che si dichiara apertamente apolitico e impronta il proprio impegno sempre e di nuovo alla diffusione della “scelta vegan”. Come evidenziano le puntuali analisi di Campagne per gli animali e Oltre la specie, gran parte delle polemiche (sacrosante, aggiungo io) che hanno investito il personaggio, si sono concentrate non tanto sul messaggio in sé, quanto sui metodi di divulgazione dello stesso. Si tratta in fondo dell’antica disputa fra vegani “arrabbiati” e vegani “mansueti”: gli onnivori non si convinceranno con le botte e le offese, ma coi bacini e le carezze. Che il problema stia proprio nel badare a ciò che si mettono nel piatto i singoli – un’impostazione evidente in entrambi gli approcci – , e nel pretendere di fornire loro, cortesemente o meno cortesemente, “le tavole della legge”, ovvero una collezione chiusa di prescrizioni su come si devono condurre nella vita di ogni dì, è un’ipotesi che non li sfiora. E, se e quando li sfiora, innesca immediatamente un fittissimo turbine di meccanismi difensivi che servono a preservare in assoluto il valore della “scelta vegan”, alla quale sentono intimamente legata la propria identità, anche a scapito degli stessi animali. Se, in senso strumentale, il veganismo si rivela del tutto fallimentare, a livello simbolico e di testimonianza individuale, esso non può essere imposto. Il vegano che decide di non consumare parti animali – una scelta che umanamente apprezzo come poche altre e ho fatta mia – è un “kantiano” della morale, cioè si muove nel regno delle intenzioni, fa qualcosa che ritiene giusto, anche se non modificherà il corso degli eventi. Può essere nobile, ma se ci si contenta di questo, sentendosi automaticamente assolti e perdendo completamente di vista le conseguenze del proprio fare e dire sulla realtà (le proprie responsabilità), si riduce a un gioco dell’io con se stesso, una forma di autocompiacimento narcisistico cui gli animali, che continuano a venire ammazzati, fanno da sfondo. Come scriveva Jean Améry, la rabbia e il dolore che tutti proviamo devono venire addomesticati perché si traformino in quella “ragione radicale” che sola potrebbe consentirci di operare scelte mirate, e questo richiede, forse, lo sforzo non facile di disfarci di un buon numero di certezze prefabbricate che al momento contribuiscono a ispessire quel contesto di accecamento in cui tutti ci muoviamo a tentoni. Non credo, insomma, il proliferare di azioni che ripetono fatalmente gli stessi errori e sono virtualmente in grado di attirare attivisti propensi a invaghirsene sia veramente desiderabile ai fini della liberazione animale. Rovesciando Marx (per una volta), i filosofi si sono occupati di cambiare il mondo, si tratta ora di capirlo.

Una risposta a “Prurigine all’azione: talvolta, meglio grattare

  1. Molto bello.

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